In questo secondo appuntamento di Academic Arena, continuiamo a parlare di esport e questione di Genere, stavolta affrontando il tema degli Spazi Virtuali.
A. Hemphill in una sua opera del 1995 suggeriva le possibilità insite in quello che chiamava al tempo “cyberspazio”. In questi trent’anni caratterizzati da un sempre crescente utilizzo e sviluppo di questi mondi e spazi virtuali in cui coabitare con nuove parti di noi e con gli altri, permangono forti quesiti rispetto ai modi in cui costruiamo, viviamo e rendiamo accessibili questi spazi. Dubbi che, come vedremo in questo articolo, legano la problematica delle questioni di genere che abbiamo avviato negli articoli precedenti e dell’impatto che gli spazi digitali hanno su di essa.
I videogiochi, compresi quelli che consideriamo esportivi, forniscono certamente una nuova forma di “spazio digitale” dove atleti, a diversi livelli di professionalizzazione fino ai videogiocatori occasionali, possono sperimentare nuovi modi di fare e intendere il gioco. Ora, adoperando una prospettiva socio-materiale (che tenga conto sia della dimensione sociale che di quella materiale nell’analisi di fenomeni complessi come quello Esportivo), possiamo costruire il nostro ragionamento da due spunti di pensiero:
Tenendo bene a mente queste due riflessioni preliminari possiamo dedicarci a continuare la nostra discussione rispetto alle difficoltà di partecipazione nei circuiti esportivi fondate su distinzioni di genere, tenendo conto proprio di questa componente degli spazi virtuali.
La ricerca di riferimento che ci accompagnerà oggi in questo breve articolo è stata condotta da Omar Ruvalcaba e colleghi, pubblicata nel 2018 presso la rivista Journal of Sport and Social Issues (come al solito trovate tutti i riferimenti in calce).
La ricerca intitolata “L’esperienza delle donne negli eSports” (titolo tradotto da me), pone l’attenzione su tematiche che abbiamo già iniziato ad affrontare e che tale ricerca approfondisce in aspetti interessanti tra cui proprio l’accessibilità agli spazi virtuali degli Esports per le videogiocatrici e le difficoltà nel vivere questi spazi dovute a pratiche di discriminazione. La ricerca parte da un recente studio (dettagliato nel lavoro di Ruvalcaba) condotto su adolescenti negli Stati Uniti, che rivela quanto i videogiochi siano popolari in tutte le fasce demografiche giovanili (Ruvalcaba et al., 2018, p. 3) senza distinzioni di genere in termini di consumo.
La domanda, dunque, resta simile a quella precedentemente affrontata in questa rubrica: perché le donne hanno meno possibilità di accesso a questi spazi virtuali offerti dagli eSports? Cerchiamo di aggiungere un altro tassello. Lo studio che in termini di “tempo investito” uomini e donne spendano lo stesso monte ore quando si tratta di videogiochi, a cambiare però sono i giochi scelti e preferiti dai due sessi. È curioso osservare anche in questa sede, quanto le donne siano veicolate verso un mercato videoludico che presuppone l’assenza di “violenza e impegno”, escludendole indirettamente da un mercato videoludico che poi spesso diventa eSport. La questione della violenza come tratto espressivo della competizione sembra emergere nuovamente in questa sede, evidenziando un primo elemento di “design” dei videogames che poi divengono eSports. Sarò più chiaro, le donne sembrano preferire titoli videoludici a basso tasso di competizione, esperienze single player, con bassa esposizione a scene di violenza o disturbanti in senso ampio.
Insomma, il mercato e il senso comune sembrano indicarci che le donne non siano classificabili come videogiocatrici “hard-core”, limitate nelle possibilità di consumo da una componente strettamente legata a componenti “interne” e proprie di quel genere. Qui invito i lettori a riflettere sul senso delle parole e sulla loro funzione, specialmente quando “genere” diviene terminologia per classificare non solo le persone ma gli stessi videogiochi.
Ora l’articolo potrebbe finire qui, eppure l’esperienza ci evidenzia come questo tipo di risposta sfumi presto nella pratica.
Le giocatrici femminili ottengono risultati paragonabili nei giochi online quando dedicano lo stesso tempo alla pratica. Potremmo allora considerare una seconda ipotesi - che ancora una volta evita le strade facili e - che considera problemi come i minori guadagni delle giocatrici rispetto ai giocatori maschi o le difficoltà ad emergere creando percorsi di carriera stabili, come frutto delle difficoltà partecipative di questi specifici spazi virtuali e non viceversa. Se la pratica permette una partecipazione paritaria tra i generi, allora cosa si frappone tra questa e il conseguimento di certi obiettivi per le videogiocatrici?
Una prima ipotesi potrebbe essere quella della difesa degli spazi da parte del genere maschile. Benché certe culture siano etichettabili come “sbagliate” molto spesso internamente è difficile soppesare la paura di perdere ciò che si ha con l’esigenza di un cambiamento. Gli esport sono attualmente una realtà crescente con forti possibilità lavorative, specialmente per gli atleti che riescono ad emergere, nonostante tutti i problemi ben noti di questo settore, compreso il forte precariato.
Il genere maschile mostra molti meno problemi a trarre il meglio da questo tipo di attività e non sorprende allora la spinta alla difesa di questi spazi verso “l’invasione” percepita del genere femminile. Nello studio di Ruvalcaba emergono importanti elementi come la paura di perdere la propria “mascolinità” se vinti da una ragazza in una competizione esportiva o la paura per la propria carriera nell’affidare posizioni nella propria squadra ad una donna.
Innegabile quindi che il senso comune che spinge verso un gaming dai tratti maschili è sia causa che effetto di atteggiamento occlusivi e opprimenti verso le donne videogiocatrici. Elementi come l’anonimato permesso molto spesso negli spazi virtuali, come ci suggerisce la ricerca presa ad oggetto, è uno dei fattori “strutturali” che permette pratiche come le molestie sessuali in gioco, che rendono complesso quel processo di “pratica” e perfezionamento delle competenze in gioco, che spesso non può essere un’attività solitaria essendo molti titoli eSportivi giocati a squadre. Non dimentichiamo che “l’oggettivizzazione” è anch’esso uno strumento volto a screditare, evidenziando tratti delle videogiocatrici come l’aspetto fisico desensibilizzando invece l’attenzione verso quei tratti distintivi, come la bravura e il talento, che non hanno genere specialmente negli esport.
Bibliografia
- Hemphill, D. A. (1995). Revisioning sport spectatorism. Journal of the Philosophy of Sport, 22, 48-60. doi:10.1080/00948705.1995.9714515
- Ruvalcaba, O., Shulze, J., Kim, A., Berzenski, S. R., & Otten, M. P. (2018). Women’s experiences in eSports: Gendered differences in peer and spectator feedback during competitive video game play. Journal of Sport and Social Issues, 42(4), 295-311.
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